Mercoledi mattina mi sono svegliato presto. Il cielo era sereno, di un azzurro splendido, senza nemmeno una nuvola. Il bosco aveva iniziato ad animarsi all’alba, come se pure i suoi abitanti avessero capito che quella sarebbe stata una giornata da vivere piena, senza sprecarne nemmeno un istante.
Sono sceso a prepararmi la moka con il caffè della ricetta “gomonico semi caffeinato”, ovvero uno strato di caffè, il resto orzo macinato e sopra un cucchiaino di cacao in polvere. Uno strano miscuglio che rende un po’ più caffeinoso il blando caffè d’orzo. Confesso di averlo fatto provare, senza dire nulla, ad altre persone, nessuna delle quali ha mai notato alcuna differenza rispetto ad un caffè al 100% caffè. Vabbè.. forse non hanno detto nulla perchè l’unica cosa da dire sarebbe stata che quella brodaglia era di cattivo gusto.
Ho spalancato gli scuri, aperto la porta per fare uscire Argo e lasciato entrare un’aria frizzante al limite del gelo. Gelida, questo è il termine corretto, fredda ma pulita, pregna di ossigeno e fortemente rigenerante. Un pensiero è partito per coloro che in quel medesimo istante stavano aprendo la porta del poggiolo affacciato sullo svincolo di Cormano della A4. C’è chi vede un prato verde e degli alberi, c’è chi vede barriere antirumore, auto in coda e TIR carichi di merci. Eh. Il mondo è ingiusto. Sempre detto.
Dal sentiero del bosco ho visto spuntare tra i larici tre personaggi di verde vestito. Stavano salendo silenziosi, in fila indiana, con gli zaini ed i fucili a tracolla. Non sono contro la caccia, ma non comprendo come si possa avere il coraggio di sparare ad un piccolo animale ignaro ed indifeso, che nemmeno si rende conto del pericolo e nulla può fare per difendersi. Le lotte impari non le gradisco. Di conseguenza, non nutro sentimenti di apprezzamento per l’animo del cacciatore.
Arrivati i prossimità del prato antistante la baita, il primo dei tre alza il braccio e mi saluta. Ricambio il gesto. In silenzio. Poi il trio prende la via della baita, subito accolto da Argo che scodinzolante, senza percepire evidentemente la loro indole da cacciatore, corre loro incontro.
“Salve, buongiorno” – dice il primo.
Ha la barba bianca e lunga, un viso abbronzato e pieno di rughe. Indossa un cappello di feltro verde scuro, una cerata verde con interno di pelo, aperta sul davanti che lascia intravvedere una camicia a quadri di flanella, con i riquadri alternati verde-marrone. Pantaloni verdi, scarponi e fucile a spalla. A tracolla, penzolante sul petto un grosso binocolo, anch’esso di colore verde. Sulle spalle uno zaino mezzo vuoto. Sembra il più anziano di tutti; non sono bravo ad indovinare le età delle persone, ma avrà sicuramente ottant’anni abbondanti. Mani nodose, abbronzate e con le vene in rilievo.
“Buongiorno” – rispondo con cortesia e curiosità, rimanendo sulla porta di casa.
Alle spalle del vecchio, altri due vecchi. Un po’ meno anziani, mi pare, ma comunque in abbondante età da pensione. Capelli bianchi, vestiti in tono su tono verde-marrone. Anche loro con binocolo al collo, zaino e fucile in spalla.
“Salve. Salve.” – salutano.
“Mattinieri ma un po’ in ritardo per andare a caccia, mi sembra.” – provo a provocarli.
“Mattinieri sempre. Ad una certa età non si dorme più e separarsi dalle donne di casa vale qualsiasi sforzo mattutino. E comunque siamo cacciatori a salve, nel senso che spariamo solo saluti. Ci piace mantenere le vecchie tradizioni, ma ora giriamo con i fucili senza colpi. Non spariamo più da anni”.
“Questo è molto meritevole – rispondo con un sincero moto di stima e simpatia – sia per la faccenda delle moglie, sia per la caccia con un fucile scarico. E pure il mantenimento delle tradizioni è un’ottima cosa”.
“Pù pasa el temp e pù me par che sen noi la preda delle bestie. Chi, tra orsi, lupi no se sta pù sicuri” – mi risponde il secondo arzillo vecchietto.
“Varda, neancha a casa se sta pù sereni. Gaven le bestie appress anca in casa, col fià sul col tut el dì.” – questo era il terzo. In puro e schietto dialetto trentino.
Sorrido e questo trio di finti ex cacciatori a salve mi inizia a stare quasi simpatico.
“Vi offro un caffè? volete qualcosa..?” – mi esce spontaneo, un gesto di cortesia involontario, perchè questi tre mi incuriosiscono e mi fanno tenerezza.
Senza nemmeno pensarci, eccoli che entrano in baita ed appoggiano armi e bagagli all’entrata. Si accomodano al tavolo togliendosi le giacche pesanti. Sembra siano di casa. Penso sia l’abitudine alla generosità ed accoglienza della gente di montagna, sincera e genuina. Lo apprezzo e mi fa piacere avere questi ospiti.
Rimetto su un’altra moka, questa volta quella grande, da 6 tazze. Da quello che capisco, il primo, il capobranco, è l’unico a parlare italiano, un bell’italiano senza alcuna inflessione di dialetto. Gli altri due sono proprio trentinacci. Parla solo in dialetto e con la tipica cadenza che noi di città definiamo “da baccani“.
Scopro che la baita era di un tale Ernesto, sposato con la Erna. Veniva utilizzata come stalla nella stagione estiva e fienile tutto l’anno. D’estate salivano con due/tre mucche, per portarle all’alpeggio, tener falciati i prati per accumulare il fieno per l’inverno successivo. La baita aveva al piano terra la stalla ed una piccola cucina, che di solito aveva la stufa, una piccola dispensa, un tavolo e un letto. Nulla di più. Ci trascorrevano la stagione estiva, dalla primavera all’autunno. Tagliavano i prati, raccoglievano il fieno e preparavano i formaggi per l’inverno e per poterli rivendere e scambiare in inverno.
Tutti e tre si ricordavano bene la baita quando era una stalla ed un fienile. Quest’ultimo occupava tutto il piano superiore e si caricava dal retro, dove il terreno in salita permetteva di entrare agevolmente e direttamente senza l’utilizzo di scale. Stiamo parlando degli anni che vanno dal primo del novecento agli anni ’70, anche se le baite della valle risalgono probabilmente al 1800. Sono felice di sapere queste cose. Sono felice della mia baita. Chissà quante cose potrebbero raccontare i muri. Chissà quante cose hanno visto.
Non ricordo i nomi dei tre, se non quello di Enrico, il colto della compagnia. Enrico era un insegnante, che aveva studiato e lavorato facendo carriera scolastica, iniziando dalle scuole elementare, poi alle medie, per finire alla ragioneria. Si spiega il suo modo di parlare con un ottimo italiano e termini appropriati. Ritornato in valle, una volta in pensione, è stato per parecchi anni sindaco del paese e l’ideatore della prima biblioteca comunale. Ecco le ragioni per le quali, così interpreto, gli altri due nutrono una sorta di rispetto e venerazione nei suoi riguardi.
A metà caffè ecco spuntare formaggio, speck e salumi da uno degli zaini. Decidiamo di stappare anche una bottiglia di vino rosso. Alle 9:00 del mattino.
Gli altri due hanno storie più semplici. Uno ha fatto il boscaiolo e l’operaio in una falegnameria, in un paese vicino, sempre in valle. L’altro la guardia forestale e manutentore delle strade comunali. Gran lavoratori, mi pare, e soprattutto con una marea di aneddoti da raccontare.
Ci siamo alzati da tavola che il sole era alto in cielo. Hanno promesso di tornare a trovarmi, magari una sera, per fare quattro chiacchiere e propormi un progetto di Enrico, che sta cercando una baita o un posto in cui organizzare, in estate, delle giornate e serate a tema, in cui riunire un po’ di persone e di turisti per raccontare la valle. La sua indole da sindaco e insegnante emerge sempre.
“E vorresti farlo qui?”
“Questa baita e questo posto sarebbero perfetti. Hai un prato grande e pianeggiante, hai l’acqua, lo spazio non ti manca. Faremmo tutto noi. Si potrebbe pensare di costruire dei tavoli con delle panche, qualcuna, da mettere qui fuori. Sarebbe splendido”.
“Ma si, potrebbe essere. Pensiamoci. Anzi, pensate voi a come vorreste fare. Poi vediamo.” – da un lato l’idea mi stuzzicava, dall’altro non volevo assolutamente un’invasione di campo. Difficilmente sopporterei di avere troppa gente attorno che mette a repentaglio la mia autonomia e libertà. Soprattutto, che viola il mio mondo di solitudine perfetta. Però la gente mi piace. Mi piacciono le storie dietro le persone. Ma solo quelle delle belle persone. Forse il problema non sono le persone in sè, ma alcune persone.
Quando ho salutato i tre arzilli vecchietti finti cacciatori ero felice. Felice di averli conosciuti e felice di poterli rivedere presto. Ci sono così tante cose che vorrei chiedere. Avrei una marea di curiosità da domandare.
Rientrando in casa per sistemare dalla colazione di montagna sul tavolo vedo la gatta intenta a leccare un piatto. Era da mesi che non la vedevo. Pensavo le fosse accaduto qualcosa e che non avesse superato l’inverno. Oppure che si fosse dimenticata di noi. Invece eccola la.
Mi sono avvicinato e quella ruffiana ha iniziato a strofinarsi su di me ed a fare le fusa, come se ci fossimo visti l’ultima volta poche ore prima. Adoro i gatti. Liberi di seguire i propri istinti, riconoscenti verso chi li accoglie e antipatici verso chi li scaccia.
Una gran mattina. Tre nuovi amici ed un’amica ritrovata.