Se non ci metterà troppo, l’aspetterò tutta la vita.
(Oscar Wilde)

Sono passati cinque giorni, oggi è il quinto. Sono salito al prato per tre sere consecutive, ad aspettarla. A cercarla. Sperando ci fosse. Ho passato ore, da solo, a riflettere, leggere, scrivere e guardarmi il tramonto. Venerdi sera sono arrivato che la luna, piena, era spuntata prima che il sole sparisse dietro le montagne, proprio di fronte. Da un lato vedevo la luna che sorgeva, dall’altro il sole che tramontava. Ho pensato al concetto di apparire e scomparire. Mi sono chiesto se non stia perdendo del tempo. Forse farei prima a lasciare il mio numero all’hotel e chiedere che mi chiamino appena dovesse arrivare. Magari con una scusa, che non mi faccia apparire troppo interessato e che possa essere valida per loro, che, banalmente, avranno una riservatezza verso i clienti da rispettare. Probabilmente anche un dovere di provacy. Poco importa. Solo ieri non sono salito al prato. 

E, comunque, lei non è mai arrivata. Non ancora, mi dico. Voglio crederci.

Solo ieri non sono salito al prato, perchè avevo un impegno organizzato da tempo con alcuni amici. Ho fatto tardi e quando sono rientrato in baita che era già notte sono passato dal suo hotel. Non serviva a nulla, lo sapevo, nemmeno potevo entrarci, di notte, per chiedere se per caso fosse arrivata. Non conosco la sua auto, quindi anche osservare quelle parcheggiate non sarebbe servito a nulla. In realtà speravo solo nel miracolo. Io che passo davanti all’edificio e la vedo alla finestra, oppure che rientra da una passeggiata. Oppure, illuso, immaginavo di poterne percepire la presenza. Ma non sono un mago e nemmeno un sensitivo. Nessuna sensazione e nessun avvistamento. Anzi, ho visto un hotel piuttosto deserto, con poche auto posteggiate. Mi sorprendo che sia ancora aperto, visto che in questo periodo gran parte delle strutture sono chiuse in attesa della stagione invernale.

Non so descrivere questo strano senso di inquietudine, lontananza, nostalgia. Come puoi provare questo per una persona che nemmeno conosci? L’ho vista una sola volta. Nemmeno so se lei mi stia pensando. Non so nemmeno quello che provo io. Figuriamoci lei. Mi attacco alla sua lettera, l’unica cosa reale che ho di lei. L’unico appiglio che mi permette di credere che un giorno magari potrò rivederla. L’ho messa in un vecchio e consunto libro di poesie preso dalla libreria e che poi, ieri notte, mi sono portato di sopra, vicino al letto.

Ieri sera, stanco morto per la giornata intensa, assonnato ma non ancora pronto per andare a dormire, mi sono seduto sulla mia vecchia poltrona. Ero inquieto e pensieroso. Mi sono alzato ed ho preso un libro a caso dalla libreria. Mi sono ritrovato tra le mani un vecchio e consunto libro di poesie. Non un vero libro di poesia, ma una raccolta di analisi dei testi poetici. Non amo particolarmente le poesie. Non amo nemmeno i balletti, ne quelli moderni ne quelli classici. Non amo nemmeno le persone anziane che battono le mani fuori tempo ascoltando la musica. Ma questo è un altro discorso. Del liceo ricordo con piacere solo le poesie di Ungaretti. Semplici, brevi. Dirette. Poco da interpretare, ma che aprono un universo di pensieri. Anche semplici da memorizzare.

Ieri notte, dunque, mi sono seduto, stanco, pensieroso. La baita buia tranne la luce dietro la poltrona. Il libro in mano. Ho aperto a caso le pagine. Prima poesia. Premessa: non vorrei essere smelenso. Non vorrei far schizzare alle stelle il glucosio di nessuno. Il diabete è una pessima malattia. E non sono sicuramente romantico. Ma questa poesia è stato un pugno nello stomaco. Tratta da “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel García Márquez, colombiano, premio nobel per la letteratura.  La riporto perchè merita.

Capita che sfiori la vita di qualcuno,
ti innamori
e decidi che la cosa più importante è toccarlo,
viverlo,
convivere le malinconie e le inquietudini,
arrivare a riconoscersi
nello sguardo dell’altro,
sentire che non ne puoi più fare a meno…
e cosa importa se per avere tutto questo
devi aspettare cinquantatré anni sette mesi e undici giorni
notti comprese.

Ho compiuto cinquant’anni quest’anno. Forse avrò tempo di trovare la mia anima gemella, come Fiorentino Ariza. Mi rimangono circa tre anni. Se continua così mi troveranno solo con Argo che veglia un corpo rinsecchito che un tempo era vivo.

La poesia mi è piaciuta. Ci ho visto il significato. Ne volevo ancora. Ancora un’altra. Ho chiuso il libro e poi riaperto. A caso. Verso le ultime pagine.

Poi lei si rigirò su un fianco,
posò il capo sul mio braccio.
La guardai.
Tutto il cielo e la terra
si specchiavano nei suoi occhi.
Seguitammo a guardarci.
Mi pareva che avrei potuto
annegarci nei suoi occhi.
Poi l’accarezzai sul viso,
ci baciammo, la trassi a me.
La strinsi.
Con l’altra mano
le frugavo fra i capelli.
Fu un bacio d’amore,
un lungo bacio di puro amore.

Vabbè, qui andiamo su qualcuno che conosco meglio. Parlo di Charles Bukowski. Si intitola “Il bacio”. Ho letto qualche suo libro. Assurdo, intenso, volgare. A tratti fastidioso da quanto è realistico e diretto. A volte divertente. Anche questo testo mi è arrivato. Potente. Come solo l’ubriacone Charles riesce a mandare. L’ho riletta. Occhi, sguardo diretto, intenso. Il mondo all’interno. Due mondi che si uniscono. Un bacio di pure amore. E le mani tra i capelli. Ossignor. Sto invecchiando. Sensibile alla poesia. Altro che orso. Mi ha mosso lo stomaco, spostato la frittura di pesce che mi ero mangiato a cena.

Vabbè. Non c’è due senza tre. Chiudo e riapro. Questa volta esce una poesia di Gibran, poeta libanese, mai sentito prima, a me sconosciuto. Ma la sua poesia è intensa. Perlomeno lo è stata per me ieri sera. Anche questa. Intensa. Ne ho percepito il significato. L’ho vista. Eccola:

Farò della mia anima uno scrigno

per la tua anima,

del mio cuore una dimora

per la tua bellezza,

del mio petto un sepolcro

per le tue pene.

Ti amerò come le praterie amano la primavera,

e vivrò in te la vita di un fiore

sotto i raggi del sole.

Canterò il tuo nome come la valle

canta l’eco delle campane;

ascolterò il linguaggio della tua anima

come la spiaggia ascolta

la storia delle onde. “

Alla fine, eccomi qui. Oggi. Domenica mattina, in partenza per tre giorni di lavoro. Salterò quattro giorni di “possibile appuntamento al prato”. Peccato. Ma non so cosa fare. Alle 13 prenderò il treno e me ne andrò a Verona.  Sarebbe il colmo: io che scendo a Verona e lei che sale in Trentino. Io che sarò via. Lei che mi potrebbe aspettare al prato. Senza vedermi arrivare. Poi si stuferà e se ne andrà. E’ così che finiscono gli amori, ancora prima di iniziare. Che merda.