Eccoci qui!

Siamo ritornati. Di nuovo nella nostra amata baita di montagna, dopo tanto tempo in giro per l’Italia e l’Europa. Per viaggiare e per lavorare. Ma ora siamo rientrati alla base. Parlo di me, e del mio fedele cagnone Argo.

Siamo partiti qualche bella settimana fa per un lungo viaggio attraverso l’Europa, che ci ha portato dalle alpi svizzere, alle campagne francesi. Poi in Bretagna e Normandia. Per finire a Londra, Oxford, Cambridge, prima di intraprendere il ritorno attraverso Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera e Italia. Poi siamo scappati in Sicilia. E siamo rientrati pochi giorni fa. Stupendo. Splendido. Nei prossimi giorni ripartirò per la Transilvania. Per piacere non per lavoro. E senza cane.

In questi mesi di assenza ho lavorato un sacco e trascurato queste pagine che erano divenute il mio “diario terapeutico”, rubando il termine ad un’amica un giorno miraccontò di tenere un diario per riflettere sul senso delle cose e riuscire a darci il giusto peso nel tempo che scorre. Come la grappa o il buon vino, devono riposare del tempo per migliorare ed affinare le fragranze. Con i capelli bianchi che sostituiscono quelli castani ho imparato a frenare l’irruenza e lo stimolo all’approccio “tutto e subito”. Sto affinando l’arte dell’attesa. Sto cercando di dare il giusto  tempo alle cose, di farle affinare e renderle di valore. Mi ricordo di quel tizio che ha un giorno mi ha detto che l’attesa di un evento spesso è già l’evento stesso, basta rendersene conto. Parole sagge. Abbiamo perso la capacità di saper aspettare. Di rallentare. Di godersi le cose con calma, distillandole goccia a goccia. Di questo, incolpo la nostra società, spinta solo al raggiungimento del risultato, incentrata sui valori della competizione più sfrenata, che inevitabilmente non lascia scampo agli sconfitti. La società del tutto o subito. Del vinci o perdi. Del nero e bianco. Del vivi o muori, che diventa poi mors tua vita mea quando portato all’eccesso. Dualismo spinto ovunque. Che genera contrasti e fazioni. E non tollera mediazioni o opinioni differenti. Brutto mondo.

Dunque, ogni tanto scappo, quando il livello di sopportazione ha raggiunto il bordo ed è prossimo a tracimare. Scappo qui in montagna. Mi eclisso, dietro alle cime, seguendo il sole che scompare nel tardo pomeriggio. Qui riprendo il mio ritmo delle cose. Riconquisto i miei tempi e, sopratutto, la priorità delle cose. Ne ho bisogno. Non si può sempre correre a mille. Bisogna saper rallentare, rifiatare e ricaricare le forze. Felice di essere qui. Oggi.

Ma non è di questo che volevo parlare.

Volevo piuttosto raccontare una strana avventura che mi è capitata la scorsa settimana. Un pomeriggio, dopo un paio di giorni di pioggia e temporali intensi, sono uscito a fare un giro in mountain bike. Il cielo era limpido e sereno. Di un colore blu inteso. Ho preso la forestale e poi deviato lungo alcuni stretti sentieri che portano in alto, verso uno dei passi tra le cime, sopra la baita. Il terreno era zuppo di acqua. Pozzanghere e tratti in cui sembrava di pedalare in un fiume. Divertentissimo. Mi sembrava di essere tornato bambino. Sporchissimo di fango e bagnato fradicio. Una volta arrivato in cima, ho percorso per qualche minuto il sentiero che costeggia il torrente, che forma in alto un bellissimo e minuscolo altopiano. Ai lati sentivo i fischi delle marmotte, veloci a nascondersi dietro ai sassi quando provavo ad individuarle. In sottofondo, solo il rumore del ruscello, piuttosto impetuoso perchè carico dagli ultimi giorni di pioggia.  Mi sono fermato su di un grande sasso bianco, a riposare, ad ammirare l’incanto del luogo. Respirare e godere il silenzio. Una magia. Stava iniziando ad imbrunire. Il sole era già scomparso dietro le cime e l’aria si era fatta improvvisamente fresca. Ed io era con i vestiti bagnati.

Ho ripreso la strada di casa, deviando ad un bivio e prendendo un sentiero mai notato prima. Non l’avevo mai percorso, stava sull’altro lato della valle, quello che di solito non frequento. Sassi, radici, rami. Un paio di volte sono stato costretto a scendere dalla bici ed a spingerla. Impossibile proseguire in sella. In un tratto che sembrava più semplice, sono risalito in sella. Ho percorso un bel tratto, superando sassi, mantenendo l’equilibrio precario sulle radici degli abeti e dei pini scivolose come sapone. Ma sempre più veloce e felice.

Poi mi sono svegliato.

Ho aperto gli occhi e messo a fuoco. Instupidito e annebbiato. Ero sdraiato sulla schiena, su quello che mi sembrava un prato. Sentivo il freddo e l’umido dell’erba bagnata. E davanti a me il viso di una ragazza. Mora. Bella. Particolare ma bella. Due occhi scuri. Una bocca rossa e ben delineata. Uno sguardo magnetico.

– Stai tranquillo, non muoverti ancora. Una voce dolce e rassicurante.

Come: stai tranquillo? come: non muoverti? Mi sono sollevato cercando di mettermi seduto. Una fitta alla gamba sinistra, una alla spalla ed un leggero capogiro. Che mi è successo? Dove sono? Chi è questa tizia? Sono morto? Sto dormendo?

Ho iniziato a guardarmi attorno. Si, ero proprio sdraiato su di un piccolo prato. Con la ragazza inginocchiata al mio fianco.

Ho iniziato a preoccuparmi, a capire. Ad avere paura. Ricordavo il giro in bici; e l’abbigliamento che indossavo parlava chiaro. Era buio. Che ore erano? Dove ero? Che diavolo mi era successo?

Ho provato a muovere le braccia, le gambe, con terrore. Ho mosso le dita dei piedi e delle mani: tutto a posto. Indolenzite ma a posto. Niente fratture. Niente sangue. Solo delle fitte di dolore alla gamba ed alla spalla. Non vedevo la bici. Mi sono portato le mani alla testa, ero senza il caschetto.

Che è successo?

E tu chi sei?

 

 

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