Passai la prima settimana godendomi l’isolamento della mia nuova vita ed esplorando i dintorni. Nel prato l’erba stava cominciando ad essere alta ma non me ne preoccupavo. Quando avevo acquistato il terreno avevo promesso al vicino che gli avrei permesso di falciare anche tutta la mia proprietà e di tenersi il fieno in cambio del lavoro. Mi sarei dovuto preoccupare solo della zona accanto alla casa, per avere il prato sempre ben tenuto e tagliato corto.

Ricordo che in pochi giorni avevo preso completamente il ritmo con la nuova vita. Mi alzavo presto, con i primi raggi del sole che arrivano sulla casa attorno alle 6:30. Argo dormiva nella sua super e collaudata cuccia a lato del mio letto. Mai aveva cercato di salire vicino a me. Mi svegliavo e mi infilavo sotto la doccia. Poi mi vestivo, sempre allo stesso modo, e scendevo a fare colazione. Il cane mi aspettava implorante davanti alla porta in attesa che gli aprissi. Tutte le mattine usciva abbaiando. Non lo faceva mai, era rarissimo sentirlo abbaiare, ma quando usciva di casa la mattina lo faceva sempre, quasi come volesse annunciare al mondo che lui c’era.

Facevo colazione con la radio accesa, per sentire cosa accadeva nel mondo reale. A volte bevevo un caffè, a volte caffelatte oppure un thè. Mi mancava il latte fresco ed avrei voluto del pane. Era strano, non mi piace molto il pane. Lo mangio in caso solo a colazione e mi piace vecchio e duro, da ammorbidire nel latte. Avrei dovuto iniziare a farmelo, il pane, magari con la pasta madre, come faceva Elena. Avrei dovuto procurarmi la ricetta. Quella speciale.

Dopo la colazione lavavo le tazze – in modalità autopulente – ed uscivo fuori. Decisi in quei primi giorni di recuperare una panca da sistemare fuori, assieme ad un tavolo. Forse anche qualche sdraio, in previsione dell’estate. Probabilmente avrei recuperato anche un barbecue, oppure lo avrei costruito da solo. Argo mi aspettava per la solita gita esplorativa nei dintorni.

Scoprii subito che su un lato del prato, a ridosso del bosco, stavano fiorendo un sacco di piccole piante di fragole. Quelle piccole, selvatiche e dal gusto intensissimo. Lungo il sentiero che saliva al lago, poco lontano dalla casa, avevo visto anche delle piante di lamponi. In quella prima settimana non avevo visto anima viva. Nessun segno di vita, né umana né animale.

Una mattina, sarà stato dopo circa una decina di giorni da quando mi ero trasferito, decisi di scendere in paese. Chiusi casa, feci un giro attorno per verificare che tutte le finestre fossero chiuse, pensando a quanto ero ridicolo ed a quanto questa preoccupazione fosse “cittadina”. Non c’era nessuno. Chi avrebbe dovuto entrare? Un ladro? E per rubare cosa? Il computer? Non avevo mai chiuso gli scuri, di nessuna finestra, nemmeno di notte.

Quella mattina presi il guinzaglio e mi incamminai con Argo. Proseguendo la strada sterrata oltre la mia proprietà, salendo ancora per un centinaio di metri, si incrociava il sentiero che dal lago scendeva direttamente in paese e che passava sull’altro lato del torrente. Ero quasi arrivato al bivio che mi resi conto che senza soldi avrei potuto comprare ben poco. Mi resi conto di come era diversa la vita in montagna. Mi vestivo come volevo, sempre uguale, uscivo senza telefono e senza portafoglio, non avevo orari, non avevo impegni, non avevo nessuno da incontrare e nulla da fare. Un sogno.

Il sentiero che scendeva in paese era molto bello, e passava tra il bosco ed i prati. Le piogge primaverili avevano reso il paesaggio di un verde intenso, a tratti chiaro, a tratti scuro. In cielo volavano le rondini e gli unici rumori che si sentivano erano quelli degli uccelli nel bosco e del torrente che scorreva impetuoso nella valletta sulla destra. A tratti il rumore di una motosega. Notai molti altri fienili e qualche altra baita, nessuna sembrava abitata, perlomeno non in quella stagione dell’anno. Raggiunsi in circa mezz’ora la chiesa del paese, appollaiata sopra un colle sopra le case del paese. Era stata ristrutturata di recente, era di un bel colore bianco con le tegole del tetto e del campanile di colore rosso. Feci un giretto nel piccolo cimitero. Erano poche le tombe recenti e tutte di persone morte anziane. Il lato positivo era che la popolazione viveva a lungo e che non morivano i giovani. Il lato negativo era che, probabilmente, i giovani morivano altrove, non che non morissero. Era la comunità che si stava spegnendo, con sempre meno giovani e sempre meno vecchi. Dicono che sia il destino dell’Italia, il de-popolamento, che inizia proprio dalle zone montane e rurali più isolate. Che tristezza.

Raggiunsi la piazza principale, che poi non era altro che un parcheggio su cui si affacciavano il Comune, la scuola – che mi sembrava chiusa e che riuniva asilo e scuola elementare – la posta, il supermarket e l’immancabile bar albergo Posta. C’era anche una bella fontana munita di lavatoio sui due lati lunghi e la fermata della corriera. Non c’era anima viva, se non un paio di avventori che intravvedevo oltre le vetrate luride del bar. Legai Argo ad un palo che indicava il parcheggio riservato ai disabili ed entrai nel negozio. Era il tipico bazar di paese, di gran lunga più ordinato, grande e moderno rispetto a quanto mi sarei aspettato. Alla cassa c’era una ragazza paffutella che arrossì dicendomi buongiorno. . Feci un giretto e notai con piacere che c’era anche un ricco ed assortito bancone di salumi e formaggi. All’interno c’era anche l’angolo tabacchi e giornali. Non mancava proprio nulla. Comprai del pane fresco, della verdura, della carne da fare alla griglia, del formaggio locale e dello speck. Salutai e me ne tornai alla baita. Avevo parlato con le prime persone dopo oltre dieci giorni. Avevo detto si e no scarse 20 parole. Io non sarò molto socievole, ma la gente del paese avrebbe sicuramente vinto in una gara di dialogo tra muti.

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