Sono a Roma per lavoro. Ieri mattina ho preso il solito treno delle 7:43 da Trento. Viaggiare mi piace un sacco, se avessi soldi e tempo ci dedicherei la vita. Spostarsi in treno è bello. E’ piacevole farsi trasportare, guardare i paesaggi, incurante del traffico, dei bivi e della strada. Adoro inoltre osservare le persone ed i loro comportamenti, ed il treno e le stazioni sono un’occasione unica. Una sorta di grande zoo all’aria aperta, dove la fauna umana più o meno diversamente selvatica vive allo stato brado.

A volte qualcosa in qualcuno mi colpisce. Basta un particolare, per molti magari insignificante, ed inizio a fantasticare. Mi immagino la sua vita, ipotizzo il mestiere o l’occupazione, le ragioni per le quali stanno viaggiando. Cerco dettagli che mi confermino le ipotesti. Nessuno mai mi dirà, poi, la correttezza delle mie elucubrazioni.

Quindi, mi ritrovo ad osservare e studiare le loro azioni, spesso ripetitive, e provo ad anticipare con la fantasia le loro mosse. Ad esempio quando arriva qualcuno a sedersi nel posto vicino in treno,  che magari le fa spostare per passare, per mettere i bagagli, per andare in bagno. Ancora più divertente quando ci sono bimbi piccoli, capricciosi, smoccolosi e fastidiosi, o, peggio, un vicino che parla gridando al telefono.

Altre volte può infatti capitare di ascoltare inevitabilmente tratti di conversazione. Quasi sempre le persone in treno lavorano al computer oppure parlano al telefono per lunghe tratte. Salvo sull’alta velocità da Bologna a Roma, tratta in cui è impossibile anche semplicemente telefonare per mancanza di segnale, figuriamoci poi lavorare online. Da oltre tre anni mi sposto regolarmente in treno per lavoro. Raramente ho visto le persone iniziare a chiacchierare tra loro.  Ognuno sta nel suo mondo, lavora e si occupa solo di non interagire con gli altri. Vale anche per me, sia chiaro. Mi domando se questo sia normale, che la gente sia incapace di pararsi tra sconosciuti, questo intendo. Da uomo, poi, si corre sempre il rischio di passare per “quello che ci prova”.

Alla stazione di Verona ieri è salita una ragazza. L’ho notata perché era particolarmente e normalmente carina: piuttosto alta, capelli scuri, lisci, lunghi fino alle spalle, un bel viso che avrebbe sicuramente dato il massimo se sorridente. Si siede dall’altra parte del corridoio, due posti avanti, alla mia destra.  Il vagone, nonostante il treno fosse bello pieno, soprattutto di innumerevoli gite scolastiche salite in ogni stazione, era mezzo vuoto. Ma io viaggio in business. Proprio per stare in pace.

Teresa M. – potrei dirvi anche il cognome e molto altro di lei, inclusa la password del portatile ed il codice di sblocco del telefonino, ho notato involontariamente tutto – indossava un cappottino bianco, una sciarpa dai toni verde/marroni, maglia e pantaloni neri. Ai piedi un paio di sneakers bianche che lasciavano intravvedere due sottili caviglie magre e pallidissime, tipo quelle di Lupin III, ma senza peli. Belle mani, dita lunghe e senza smalto, con le unghie corte di chi con le mani ci lavora, piene di anelli e braccialetti.

Si alza un paio di volte per sistemare la giacca, poi la valigia; ancora un’altra volta per prendere il caricabatteria dal bagaglio. Ed ogni volta mi guarda e mi osserva. Ed io guardo ed osservo lei, impassibile ma attento. Sostengo il suo sguardo. Si siede, apre ed accende il portatile, poi sopra ci aggiunge un iPad. Digita, scrive, pigi, schiaccia, passando dall’uno all’altro come una macchinetta. Ogni tanto alza lo sguardo e mi guarda. Ed io mi accorgo e la guardo. E lei finge di essere assorta nei pensieri ed, imperturbabile, torna a premere tasti.

Ad un tratto le suona il telefono e risponde. Non riesco ad ascoltare l’intera conversazione, nemmeno ne ho l’intenzione, ma capisco che è una sua cara amica, che la invita ad uscire, a trovare qualcuno, a smettere di lavorare solo notte e giorno. Lei risponde che ha troppo da fare, che segue progetti importanti, che comunque non avrebbe tempo per qualcuno. Poi smetto di seguire il discorso. Mi rendo conto che l’amica le sta facendo la paternale, perché lei non parla se non per dei continui “si, si, hai ragione, ma vedi.. non capisci..“.

Sul finire della telefonata sento che dice “ma poi, tanto, chi vuoi che mi cerchi, una come me, nemmeno mi notano, non sono bella, sono la normalità assoluta, nessuno più mi guarda, ormai qui poi sono tutti mezzi uomini, forse si guardano solo tra di loro”.

Alzo lo sguardo ed incrocio il suo, che abbassa subito. Ed abbassa il tono della voce.

Dopo qualche minuto la vedo indaffarata a pigiare tasti come una forsennata. Considero che è un peccato. Le guardo la mano ed in effetti non ha la fede al dito  e nemmeno anelli con brillanti, quelli che hanno tutte le fidanzate. Sull’anulare di entrambe le mani nessun anello.  Penso che sia un peccato. Una così bella ragazza, normalmente splendida e naturale. Vorrei dirle “non è vero che nessuno ti nota. Tutti ti guardano. Io non sono tutti, ma io ti sto ammirando. Sei bella.”.

Passato un po’ di tempo, mi alzo per sgranchirmi ed andare in bagno. Le passo vicino, non alza lo sguardo, ma dopo pochi passi mi giro per guardarmi indietro e la vedo che mi segue, girata sul sedile. Beccata. Sorrido tra me e vado in bagno.

Ritornato al posto mi viene in mente quando si era bambini, e ti piaceva una compagna di classe, ma non avevi il coraggio di dirglielo, ed allora, talvolta , le lasciavi un bigliettino nell’astuccio, o nel quaderno, o nel diario. Quasi sempre anonimo. ti bastava consegnare il messaggio, liberarti di quella voglia di dichiararti, ma con il terrore delle conseguenze. Il bigliettino anonimo era perfetto per lo scopo. E partiva la caccia all’autore, perché la destinataria lo mostrava subito alle amiche. E creavi trambusto. Quando andava male, ma si trattava senza alcun dubbio di piccole mostricciatole infelici e già frustrate, il biglietto veniva preso e distrutto all’istante con grande cattiveria e disgusto. Poverette loro.

Nella noia più assoluta, visto che stavo studiando per la riunione del giorno successivo, ed avevo sotto mano carta e penna,  decido di creare un po’ di scompiglio. E di vedere l’effetto che fa. Scrivo così il biglietto della foto, lo strappo in un quadrato di pochi centimetri, ed attendo paziente il momento opportuno.

Ed il destino aiuta gli audaci, passano pochi minuti e lei si alza per andare in bagno. Siamo quasi a Firenze. Gallerie e gallerie. Mi alzo veloce e, passando lungo il corridoio quando raggiungo il suo posto, le infilo il biglietto tra la tastiera ed il monitor del computer. Nessuno mi ha notato, nessuno tra i pochi viaggiatori del vagone ha visto nulla. Perfetto. Mi giro e mi torno a sedere, riprendendo impassibile quanto stavo facendo.

Lei rientra e si siede. Mi sento un cretino, molto imbarazzato. Spero non si veda. Tengo la testa bassa sul mio portatile e non oso guardarla. lo faccio con la coda dell’occhio. Lei continua a lavorare sull’iPad, senza aprire il portatile. Quando ho infilato il biglietto ho visto la schermata di accesso, ho letto il suo nomee cognome per il login. La schermata dello standby riportava nome e logo dell’azienda per cui lavora. Due secondi dopo l0ho cercata su Linkedin: un piccolo genio nel suo lavoro, laurea  con lode e dottorato, pure un paio di premi internazionali vinti, inserita tra le 100 più promettenti ricercatrici al mondo nel suo settore. E brava la nostra Teresa!

Poi apre il portatile. Vede il biglietto. Lo prende. E’ stupita ma sorride. Anzi, no, quella è proprio una vera e propria risata silenziosa. Si guarda attorno. Percepisco che mi sta guardando, ma io, impassibile, continuo a scrivere al mio portatile. La riguardo. Ha gli occhi che ridono. Mi sembra felice. Forse era dai tempi delle elementari che non riceveva un biglietto simile. Sono felice per lei. Anche io sto bene. E’ un po’ come aver fatto un piacere a qualcuno, un piccolo gesto forse inutile, forse importante.

Stiamo per arrivare a Firenze. Lei si alza, sorridente. Guarda il vagone. Sicuramente si starà chiedendo chi è stato, chi è l’autore di tale gesto. Io continuo a stare concentrato sulla mia tastiera. Indossa il suo cappottino bianco. Prende il bagaglio dalla cappelliera e si sistema la sciarpa. Non ho visto dove ha messo il bigliettino. Sarei curioso di sapere cosa ne farà. Se lo butterà o se lo terrà per ricordo.

Siamo a Firenze. Ci stiamo fermando in stazione. Lei prende il bagaglio e mi guarda. Questa volta incrociamo gli sguardi. E mi sorride. Sono certo che mi ha parlato, con gli occhi, mi ha detto “grazie, so che sei stato tu. Mi ha fatto piacere. Tanto. Ma devo scendere. Sei bello anche tu”. 

Quella bella sei tu. Spero che quel biglietto ti accompagni per un po’ di tempo, perlomeno fino a quando qualcuno potrà dirtelo di persona, quanto sei bella.

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