Da quando sono rientrato in baita, nel mio piccolo isolato privato solitario mondo alternativo, tutte le mattine, tra le sei e mezza e le sette Argo viene a svegliarmi. Non conosce giorni della settimana, festività, sabati o domeniche, nemmeno credo sia in grado di leggere l’ora, ma è puntuale come l’orologio atomico svizzero. Tra l’altro, piccolo particolare, l’unico orologio che possiedo è quello sul telefonino. Non ho orologi in casa, perlomeno funzionanti. L’unico appeso è quello a cucù, fatto in legno, a casetta, preso in Germania, ma che rimane appeso, con le pigne ciondolanti, immobili come le lancette, ferme sulle 7 e 17. Ho pensato che Argo senta le campane, ma non ci sono campane che suonano a quell’ora del mattino in cui viene a svegliarmi. E le campane del paese non si sentono sempre, ma solo, eventualmente, con la bassa pressione.

Sento il suo muso che spinge sul braccio, sulla schiena oppure sul mio viso, dipende da come sono sdraiato. Io lo ignoro. Allora salta con le zampe anteriori sul letto, le sue musate si fanno più insistenti, fino a quando lo saluto e lo accarezzo. Allora appoggia la testa su di me e si lascia coccolare, in attesa che gli dica di spostarsi per lasciarmi scendere dal letto. Normalmente se mi sveglio, mi alzo e sono incapace di tornare a letto.

Da quando sono rientrato, oltre che alzarmi con la sveglia di Argo, mi sono sempre immediatamente vestito e sono uscito con lui a fare un giretto. Con ogni tempo: freddo, caldo, vento, pioggia, neve. La mattina il bosco è incredibilmente rumoroso e vispo, soprattutto di uccelli che riempiono il silenzio con i loro versi. Stamattina Argo ha iniziato ad abbaiare. Verso il nulla. Come se ci fosse un altro animale. Quest’inverno avevamo avuto un incontro ravvicinato con due splendidi lupi, che dall’alto rispetto al sentiero in cui camminavamo, erano arrivati silenziosi, si erano fermati, ci avevano osservati e dopo oltre un minuto avevano ripreso con calma il loro cammino. Argo nemmeno se ne era accorto. Per scrupolo lo avevo richiamato e lo avevo legato al guinzaglio. Molto spesso sul prato antistante la baita vedo caprioli, cervi e volpi. Era la prima volta che vedevo due lupi.

Questa mattina non ho capito a cosa abbaiasse Argo. Non sembrava spaventato, quanto desideroso di giocare. Non ho visto nulla. Però ho pensato alle parole ed al linguaggio. Gli uccelli la mattina cantano come dei pazzi. In maniera diversa, a seconda delle specie, così credo. Ma sempre allo stesso modo. Stamattina Argo abbaiava come se volesse parlare, come se volesse convincere qualcuno ad unirsi al gioco. Ritornando in baita ho considerato che l’uomo è l’unico essere vivente in grado di parlare. Ha inventato il linguaggio ed un sacco di parole. Mi sono perso a pensare alle parole. Che strana convenzione. Libro. Chi avrà inventato la parola libro? perchè proprio libro? è onomatopeica? e chi ha deciso che quello era un “libro”? oppure un albero? o un fiore? Ogni parola. Sembra così assurdo che uno, un bel giorno, abbia detto: questo è un fiore. E gli altri. Ok, bravo. Si, si, chiamiamolo fiore. Possibile che non ci sia stato nessuno a dire: ” Eh no, mi spiace, io lo chiamo libellula.” E, quindi, perchè fiore e non libellula?

Ho preparato la moka pensando alle parole. Incapace di comprendere come ci sia stato un accordo sulle singole definizioni. Poi ho pensato ad un cieco. Come spiegare ad un cieco dalla nascita cosa è un fiore? e magari un fiore di colore giallo? come si spiega un fiore? come si spiega il colore giallo? Il nostro linguaggio, la capacità di spiegare, quindi di comunicare dipende da cose che tutti sappiamo, che ci sono state tramandate da sempre. Nessuno ci ha mai spiegato cosa è un fiore e come è fatto. Semplicemente, forse, un giorno qualcuno ci ha parlato dei fiori. Indicandoceli. E da quel momento abbiamo capito che, inequivocabilmente, per tutti, quelle cose colorare nei campi o nei vasi, sono i fiori. Le parole sono come dei cartellini che danno un nome alle cose. Permettono di comunicare tra persone diverse. E sono potenti.

Le parole sono quindi potenti. Il linguaggio è ciò che ci rende umani, ci differenzia dagli animali. Intendo il linguaggio verbale, non quello non verbale. Le parole ci permettono di descrivere la realtà che ci circonda. Ci permettono di spiegarci. Anche se ogni parola ha molteplici significati e, soprattutto, il modo in cui viene detta, il contesto, il tono, l’ambiente, muta totalmente il significato. Stesse parole, messaggi diversi.

Per questo non amo i social. Non mi piacciono i messaggi. Obbligano a ridurre le frasi, omettendo passaggi a volte fondamentali. Perchè alla fine, si scrive e si parla per dire agli altri ciò che si pensa. Quindi ciò che si è.

Tra un sorso di caffè e l’altro, ho pensato che con le parole si può far arrabbiare, si può ferire, si può guarire, consolare, si può amare e fare innamorare. Le parole contano più dell’aspetto esteriore. Perchè le parole dicono chi siamo, non come siamo. Ci si innamora non dell’aspetto fisico, che cambia ed è soggettivo. Certo, è importante. La bellezza conta. Pure io, alla fine, sono un esteta, perchè amo il bello e la bellezza. Ma ciò che conta veramente è ciò che si pensa, è ciò che risiede nella nostra mente, è ciò che si dice ed il modo in cui si dice. Sono molto più seduttive le parole rispetto ad un corpo. Le parole ci permettono di vedere dentro, dentro l’anima, di apprezzare la parte più profonda delle persone. Certo, esistono anche le menzogne. Ma sempre parole sono. Capita di innamorarsi di brutti, perchè alla fine, l’estetica, arriva dopo le parole. Difficile innamorarsi di una bellissima persona che parla male, dice cose sciocche e magari è uno stupido. Le parole sono io biglietto da visita dell’anima, la definiscono, la descrivono, la portano all’esterno. Spiegano la sua essenza e la sua personalità.

Bisogna misurarle bene. Ponderarle. Usarle con parsimonia e cautela. Le parole possono essere una coltellata o una carezza. Le parole hanno delle conseguenze.

La meravigliosa filosofa e scrittrice Amelie Northomb scrisse

“L’analisi dell’edificante linguaggio altrui mi portò a questa conclusione: parlare era un atto di creazione ma anche di distruzione. Era meglio starci molto attenti, con questa invenzione.

E il nostro modo di e la nostra capacità di comunicare spiega agli altri quanto è chiaro il nostro pensiero. John Searle, filosofo statunitense ha detto:

“Non è possibile pensare con chiarezza se non si è in grado di parlare e scrivere con chiarezza”

Non lo so se sia vero. E’ bello pensare che lo sia.

E visto che non c’è due senza tre, chiudo e vado a letto non prima di aver riportato una terza citazione, questa ultima di uno dei mie autori prediletti, Antoine de Saint-Exupéry:

La lingua è fonte di malintesi

E questa, forse, è quella che più mi si addice. Purtroppo. Ahimè.

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