Ci sono. Eccomi qui, a riprendere in mano queste pagine, questo strano diario di bordo che lascio aperto sulla scrivania online in balia dei curiosi. O di chi ci capita per caso. Perché le migliori cose capitano sempre per caso, nonostante tutti vi inculchino il potere delle programmazione e della pianificazione. Ho capito fin troppo bene che le gioie della vita sono quelle inattese.  E che, al contrario, le aspettative sono solitamente quelle che portano delusione e acredine.

Il 25 maggio sono partito con la moto, tutto solo, sotto un diluvio incredibile che dal Trentino mi ha accompagnato fino quasi a Trieste. Pioggia e pioggia e pioggia. Con l’acqua che dopo circa un’ora ha iniziato ad inumidire la schiena, le braccia ed i boxer (pisello sarebbe stato ciò che ho inizialmente scritto, corretto poi per finto pudore).  Quando viaggio in moto non prendo mai le autostrade ma preferisco itinerari alternativi, lenti e sconosciuti. Ci vuole coraggio e ci vuole la voglia di procedere lenti. Privilegiando il viaggio alla meta. La mia meta era Serifos, una piccola splendida isoletta nelle Cicladi Greche, da cui vi sto scrivendo ora. E’ come aver trasportato la mia baita sulla scogliera del mare Egeo. Non vedo le cime ed i boschi delle mie montagne, ma il mare e la baiaetta che sta sotto la casa.

Non racconterò i dettagli del viaggio e nemmeno l’itinerario preciso. Sappiate solo che ho percorso chilometri e chilometri di entroterra, in assoluta solitudine, lunghe distanze senza incontrare anima viva, attraverso una natura verde e selvaggia. Sono passato per paesi abbandonati, case in sassi di cui rimanevano in piedi solo i muri perimetrali, con tetti sfondati e finestre spaccate. Giardini fioriti pieni di erbacce, piante che crescevano sui tetti oppure fuoriuscivano da dentro. Tante case abbandonate. Tanti rottami di auto e mezzi agricoli, camion, motorini a bordo strada. Mi sono chiesto tante volte se era il caso di continuare, oppure di ritornare lungo la costa, dove c’è più vita. E sicurezza. Sì, perché anche solo bucare una gomma in quelle zone interne e isolate avrebbe potuto comportare conseguenze impreviste, probabilmente poco piacevoli.

La cosa bella è che ogni volta che incrociavo un’auto o passavo lungo un paesino abitato, tutti quanti mi salutavano. Ed io rispondevo felice. Felice perchè avevo la netta sensazione che un aiuto, in caso di imprevisto, lo avrei sicuramente avuto. Tutte le volte che avevo modo ti fermarmi, per bere qualcosa, per sgranchirmi o fare rifornimento, ogni santa volta, qualcuno si fermava ad attaccare bottone. Prima osservavano la targa delle moto, poi mi chiedevano, spesso nella loro lingua: “italiano?”. Avrei potuto scommettere. Ed avrei vinto a man bassa. Ogni volta: “italiano?”. Sì, sì, italiano.

Sono sceso passando all’interno della costa, sopra Trieste, finalmente togliendo la giacca interna impermeabile. Sono entrato in Slovenia tra boschi verdissimi e rigogliose colline, per poi scendere lungo la Croazia. Ad un tratto ho iniziato a costeggiare il mare, con il sole alto nel cielo azzurro ed il mare blu sulla destra. Colori meravigliosi ovunque, la moto che borbottava felice, strade deserte e curve da pennellare. Ho cantato. Mi sono fermato a fare delle foto ed ho cambiato casco, riponendo definitivamente casco integrale e guanti nel bauletto posteriore. Sono ripartito, casco aperto, sorriso durbans, bocca chiusa per non ingoiare troppi insetti e l’anima molto più leggera.

Una cosa curiosa è che viaggiando in moto finisco sempre a cantare. La cosa strana, lasciando da parte il fatto di essere ben conscio della mia pessima intonazione, è che mi si fissa in testa una canzone, una sola, che arriva inaspettata nel cervello, e che poi non se ne esce più per tutto il viaggio. Sempre la stessa. Sempre una sola. Normalmente il giorno dopo ne spunta una diversa. Durante il primo giorno di viaggio, costeggiando la costa croata mi ha accompagnato il ritornello di “Strade” dei Subsonica.

Strade che si lasciano guidare fortePoche parole piogge calde e buioTergicristalli e curve da drizzareStrade che si lasciano dimenticare (andare via così)

ForseSta a pochi metri da meQuello che cerco e vorrei trovareLa forza di fermarmiPerché sto già scappandoMentre non riescoA stringere più a fondoE ora che sto correndoVorrei che fossi con meChe fossi qui

La sera sono arrivato a Barbat, sull’isola di Rab. Posto splendido, ancora fuori stagione e che anche per questo aveva un sentore di privilegio elitario. Poca gente, fortunata, che aveva scelto di esserci.

Non mi sono mai sentito solo, ma in ottima compagnia di me stesso. Finalmente. Finalmente in pace con me stesso e con ciò che, avrei poi scoperto in seguito, sono stato in grado di capire, analizzare, comprendere e perdonare. Sono andato avanti. Pulito e sereno. In pace con me stesso e con il mondo. Io e la mia moto. Due ottimi compagni: me stesso ed un insieme di tubi, cavi, motore e ruote. Ogni tanto ci parlo, alla moto. Le chiedo come va, la accarezzo sul lato sinistro del serbatoio, dove immagino le faccia un sacco di piacere. Le domando se è stanca, se si diverte, se vuole fare una sosta, se apprezza il viaggio e la strada.

Molti chilometri li ho percorsi riflettendo su ciò che ero e volevo essere in questa avventura. Il dilemma era se fossi un viaggiatore, un turista o un viandante. Turista è stato escluso fin da subito. Nulla a che vedere con me ed al mio spirito errante. Viaggiatore deriva dalla parola “viaggio”. A sua volta, ho poi scoperto, arriva dal verbo viaggiare, che inizia a essere usato non prima del Seicento. Inizialmente il viaggiatore, era utilizzato per identificare gli esploratori, i mercanti e gli scienziati che partecipavano a missioni di scoperta. Ora questo senso è andato perso, con la scomparsa del senso mitico di mercante o scienziato. Ora sono imprenditori, manager o ricercatori, che viaggiano con un obiettivo ed una meta ben precisa, non per e con lo spirito di avventura e di scoperta. Questo spirito lo ritrovo, piuttosto, nel viandante.

Secondo l’enciclopedia Treccani, viandante è “chi va per via”. In particolare chi passa per vie esterne alle città, viaggiando a piedi, al fine di raggiungere luoghi anche lontani.
Rilevo una dimensione quasi romantica del viandante e del “viandare”, come condizione e predisposizione dell’anima all’errare che – a sua volta – è inteso sia in senso di “andare qua e là senza direzione o meta certa, vagando” ma anche “sviarsi, ingannarsi, perdersi”. È la condizione idealizzata dalla figura di Ulisse, che nel suo “errare” incarna la condizione stessa dell’Uomo nel corso della Vita. Questa la prendo per mia. Ricordiamoci che a casa ho lasciato il cane Argo, che mi manca un sacco e che spero di rivedere in forma, allegro e felice di rivedermi. Non pulcioso e morente, per chi conosce l’Odissea ed il suo 17mo libro.

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