Nelle scorse settimana è venuto a stare da me per qualche giorno uno dei miei più cari amici. Ha studiato fotografia a Los Angeles ed ha fatto, più per hobby che per professione, il fotografo per molto tempo. Recentemente insegnava fotografia ai ragazzi delle superiori. Abbiamo chiacchierato un sacco di fotografia, prendendo spunto da una ispirante mostra su Vivian Maier che ho visto recentemente alla Reggia di Monza.
Per chi non ha mai sentito parlare di Vivian Maier, la sua storia è davvero curiosa, soprattutto per come il suo personaggio è salito agli onori della cronaca nel mondo della fotografia. E’ stata una fotografa statunitense, nata nel 1926 e morta nel 2009, che si è dedicata per l’intera vita alla cosiddetta street photography, la fotografia di strada, quella che immortala situazioni reali, soggetti e personaggi inconsapevoli in luoghi pubblici. E’ fotografia di improvvisazione, di “momento colto”, di sorpresa e documentazione. Qualcuno la vede come una sorta di reportage sociale, perchè queste foto riescono a fotografare il mondo reale e ad evidenziarne i cambiamenti. La street photography è scattare da mosca, girare per il mondo come una mosca, osservare tutto e tutti, a tratti infastidire.
La storia incredibile di Vivian Maier è che la sua sterminata produzione di rullini, foto, scatti, negativi è stata ritrovata quasi per caso, quando il deposito delle sue mercanzie, non pagato, ha deciso di mettere all’asta la sua merce. I suoi archivi sono stati scoperti e, grazie, al tam tam sui social, i suoi scatti e la vicenda fortunosa hanno attirato l’interesse degli appassionati di fotografia. Le sue immagini aprono uno spiraglio sul cuore della società americana tra gli anni 50 e 70. Sono fotografie in bianco e nero, spesso quadrate, di grande impatto.
E’ curioso che proprio all’inizio dell’inverno avevo deciso di riprendere in mano la macchina fotografica, di tornare a scattare. C’è stato un lungo momento nella mia vita che non uscivo mai senza la mia adora e compianta Canon 6D. Poi, come accade spesso, la pigrizia di portarsi in giro almeno un chilo tra macchina ed obiettivi ha preso il sopravvento. L’ho venduta, sbagliando, passando ad una piccola macchinetta tascabile. Che non dava le stesse sensazioni. Che non impegnava nello scatto come nel farlo con una reflex importante. Che, tuttavia, nelle scorse settimane ho deciso di riportare in vita. Ho ripreso a scattare. Mi sta tornando la voglia e la passione.
Da sempre ho l’abitudine di scrivere, di riportare in racconti i miei pensieri. PErchè di pensieri, in testa, ne ho sempre fin troppi. Alcuni si sistemano ed escono di notte, escono dai sogni come se qualcuno scrivesse per me. E da sempre ho pensato esserci una certa vicinanza tra chi scrive e chi fotografa. Vedo un filo che lega una fotografia ad un racconto. Ci sono racconti che potrebbero essere riassunti con un’immagine e ci sono fotografie che sono i grado di raccontare storie. L’ispirazione per una storia o un racconto è come un lampo di luce, che colpisce l’immaginazione e fa partire una narrazione. Si nota una situazione, un atteggiamento, un modo di fare, una personalità e si finisce per fantasticare sul chi, come e perchè. E la fotografia parte dallo stesso momento. Una visione che attira, fa pensare. Che incuriosisce. E la luce che poi ferma l’istante, blocca i ricordi, non lo fa scappare e lo imprigiona. Ed ognuno, guardano un’immagine, può ignorarla oppure può sentirne la potenza ed il sentimento. E, quando questo accade, la nostra mente fa partire un racconto, scatta l’immaginazione. Ci si scopre narratori. Ed un po’ scrittori, con la fantasia.
La mostra della Maier mi ha illuminato ed ispirato, oltre che per la voglia di tornare a scrivere con costanza e abitudine, per la bellezza delle fotografia quadrate ed in bianco e nero. La forma quadrata è perfetta per il minimalismo del bianco e nero. Perchè le vere fotografie d’impatto sono quelle senza colori, quelle in cui le forme, le ombre, i chiaroscuri scatenano emozioni. Colpiscono per la loro essenza, non per il colore. Per chi se ne intende, l’HDR sta ai social come il bianco e nero sta alla vita reale. Togliere le cose che non servono permettono di aggiungere libertà. Libertà di visione e immaginazione.
Una fotografia racconta, permette di evocare una storia. Una storia che ogni osservatore inventa diversa, secondo il suo personale e soggettivo punto di vista.