Le ultime settimane sono state piuttosto intense. Un gran casino, a dirla tutta. Come tutta la mia vita negli ultimi anni. Ma poi ci si abitua a tutto. Con il tempo si impara a far scorrere ogni cosa, a lasciare indietro le cose che danno noia, a lasciare fuori anche le persone poco gradite. Ma è sempre tutto uno spiffero, un giro d’aria, con poarte e finestre che si aprono, si chiudono, sbattono e magari rimangono socchiuse. A volte una ventata improvvisa le spalanca, altre volte le chiude con fragore. Certe volte sentiamo la corrente fredda lungo la schiena e ci domandiamo cosa abbiamo lasciato di aperto, dietro, alle nostre spalle.  Altri momenti abbiamo il bisogno di cambiare aria, di spalancare tutto per far uscire ciò che c’è dentro e far entrare qualcosa di nuovo.

Si, lo so, me ne rendo conto, sembro uno dei peggiori poeti ermetici. Oltretutto, non sono nemmeno un poeta e nemmeno vorrei esserlo. Sto solo scrivendo di getto in questo primo giorno di primavera, finalmente!, e questo è ciò che esce dai miei pensieri. La primavera è la stagione della rinascita, dei buoni progetti, dell’abbandono del freddo inverno. Dell’atteso primo caldo primaverile.

Ad inizio anno è rinata la passione per la fotografia. E’ risbocciata come un anemone hepatica, l’erba trinità. E’ il fiore che annuncia la fine dell’inverno, un ranuncolo dai fiori piccoli, dal colore che spazia dal bianco al blu, al viola. Sono i primi fiori che spuntano nel bosco, tra le foglie marroni.

C’è stato un tempo in cui amavo creare fotografie. Perchè le fotografie si creano, non si scattano. Qualche settimana fa, facendo ordine, ho trovato un vecchio archivio con migliaia di foto, digitali. Scatti che coprono il periodo compreso tra la fine degli anni 90 ed il 2020 circa. Poi ho smesso. Ho venduto la reflex, gli obiettivi ed ho smesso di scattare. L’ho sostituita con una piccola macchinetta tascabile, automatica e moderna. Mai usata perchè l’iphone faceva foto altrettanto valide. Centinaia di foto, alla cazzo, per ogni stupida occasione, in ogni banale momento. Foto, foto e foto. Scatti inutili destinati all’oblio. immagini che nessuno mai riguarderà e che non interessano a nessuno.

Ad inizio anno ho deciso che era il momento di tornare a scattare. Ho sostituito la macchinetta per bimbi pigri e me ne sono ripreso una seria, con gli obiettivi intercambiabili e le impostazioni manuali. Ne ho preso una difficile da imparare, con un solo obiettivo fisso. Per scattare in bianco e nero. Non lo so perchè, ma mi è venuta voglia di fotografare in bianco e nero. Minimalismo mentale. Eliminare l’inutile per concentrarsi sull’essenza del messaggio. Ho preso in mano le vecchie foto, selezionando le migliori, provando a dare loro una nuova vita in bianco e nero. Ritagliandole quadrate. Ci sto lavorando. Mi piace. Mi sto appassionando di nuovo.

E sto uscendo ogni giorno con la macchina fotografica. Per le strade. Vedo cose. Osservo, noto, fotografo. Cerco la luce, le simmetrie ed il significato. Ne vedo di nuovi. Ne cerco di nuovi. E ragiono in bianco e nero, cercando l’essenza, il significato ultimo, libero da orpelli, depurato da colori ed ammennicoli. Sembra la mia vita di questi anni. Ho un progetto fotografico, che sto portando avanti altrove. Non qui. Ma forse un giorno convertiranno.

E’ successa poi una cosa davvero curiosa. Anzi, due episodi che fanno pensare. Esco a cena da Gabriele, ha studiato fotografia a Los Angeles, ha fatto il fotografo per anni. Per molto tempo ha insegnato fotografia. Quella sera, tra un bicchiere di vino e l’altro, gli racconto di essere tornato a scattare e a fare foto. Ne è felice. Dico che sarebbe bellissimo utilizzare la pellicola, le vecchie macchine analogiche, svilupparsi e stamparsi le proprie pellicole. “Peccato! – mi dice – pensa che ho appena venduto la mia vecchia Nikon analogica, ad un prezzaccio. Se lo sapevo te la davo”. Siamo finiti a parlare di sviluppo di pellicole, di chimica, camere oscure, liquidi per sviluppo. Un altro mondo. Affascinante. Sono rientrato a casa pensando alla bellezza della fotografia analogica. Altro che digitale.

E poi cosa accade? Qualche giorno dopo scopro che Ivan ha una vecchia borsa, lasciata in una casa di sua proprietà da un vecchio inquilino morto solo. Oltre dieci anni fa aveva dovuto liberare e sgombrare tutto. Nessuno voleva saperne dei rimasugli di una vita di un morto solitario. Aveva trovato una borsa da fotografo, con due vecchie reflex e parecchi obiettivi. Qualche giorno dopo mi ha regalato la borsa. Conteneva una splendida Canon F1 ed una Canon A1. Meravigliose, nere, lucide, pesanti e antiche. Analogiche. Le ho fatte vedere e sistemare. Sola la F1 si è salvata, mentre la secondo fa ora scena su una mensola sopra il computer da cui scrivo. Ho comprato un rullino in bianco e nero. 36 pose. Asa 400.

Sto centellinando gli scatti, come fossero un bicchiere di vecchio porto prezioso. Proverò a finire, in ansia per il risultato. Altro che digitale. Qui si tratta di centrare l’esposisizione corretta, la giusta luce, la focale appropriata. E bisogna avere pazienza. Maestria (che non ho) e tanta pazienza. Perchè nulla va sprecato, ogni scatto è prezioso e costoso. Ed il risultato si vedrà solo alla fine del rullino, quando sarà sviluppato.

Nel frattempo esco con la macchina al collo. E scatto. Creo immagini. Le vedo e le cerco, consapevole che la fotografia è solo un pretesto. Un mero pretesto per uscire a vedere il mondo. Per curiosare. Per osservare gli altri. Per vivere. Per dimenticare i momenti bui e portarli nelle foto, imprigionarli nelle immagini. Liberiamoci.

Basta un pretesto per uscire e tornare a vivere.