Finalmente sabato, finalmente un’altra settimana terminata. Sembra che gli impegni lavorativi, anzichè diminuire, debbano costantemente aumentare, nonostante stia facendo di tutto da anni per abbassare i ritmi. Pare non sia l’unico a pensarla così, ad aver capito che forse bisogna cercare di sfuggire dalla ruota e smettere di correrci a vuoto come un criceto. Sono accadute due cose strane questa settimana. Che vorrei raccontarvi. Sono apparentemente scollegate, ma io ci vedo un nesso.
Martedi scorso di ritorno a casa, mi fermo in paese a fare un poco di spesa e decido di fermarmi al bar. Il bar Ideal è davvero un luogo magico, ti permette di cambiare realtà, di entrare in un antico mondo parallelo solo varcandone l’ingresso. In questi giorni Carmen ha sistemato la terrazza esterna ed ha posizionato i tavolini in ferro. Le prime belle giornate di sole e le temperature più miti permettono ora di sedersi all’esterno. Il bar Ideal è il tipico bar di paese, quello in cui nessun “cittadino” ci metterebbe piede se non costretto. Quello in cui tutto è antico e fermo agli anni sessanta. C’è il bancone in legno e metallo, le bottiglie allineate sulle strette mensole di formica verdina, con dietro lo specchio. Ci sono le sedie in metallo, quelle in legno, quelle impagliate. Tutte diverse. Su alcune sono legati dei piccoli cuscina colorati, alcuni tinta unita, altri a quadretti. Tutti rigorosamente diversi e spaiati. Su alcuni tavoli ci sono le tovaglie, anch’esse diverse, fissate al tavolo con quei curiosi pezzi di metallo, che si infilano nel bordo e che è inevitabile staccare per cincionarci un poco. Alle pareti sono appese vecchie immagini sbiadite, pubblicità di bevande che farebbero bella mostra di sè al mercatino delle pulci, vecchi articoli di giornale quasi ormai illeggibili – campioni del mondo nel 1982 oppure l’assassinio di kennedy, e c’è pure lo sbarco sulla luna. Il bar Ideal, nell’arredamento, include il gruppetto di vecchi del paese, la vera anima del locale. Li conosco ormai tutti, mi hanno accolto con una leggera diffidenza all’inizio, salvo poi, una volta dimostrate le mie buone intenzioni, mostrarsi sinceramente amichevoli e disponibili.
“Buondì! oh, ecco chi se vede. Quale onore” – mi accolgono con il sorriso sghembo di chi è senza denti o fa fatica a tenere la dentiera – “Sentete chi e tote en bicer chi con noi” “dovem parlarte” “I te cerca” “Giust al vers“. Un tripudio di saluti, rigorosamente in dialetto. Tutti in mano tengono un bicchiere di vino, chi rosso, chi bianco.
“Buongiorno Carmen” – saluto la titolare – “posso avere un caffè?” “Daghel colla sgnapa, però, al bocia” -arriva il consiglio dal tavolo dei saggi. Si, perchè per loro sono ormai il “bocia“, il ragazzo, termine che ha sostituito il diffidente “furest“. Meglio ragazzo che forestiero.
“C’è una giornalista che ti cerca. E’ arrivata stamattina. E’ qui in giro per il paese”
“Una giornalista? e cerca me?
“Si. Scrive per non so che giornale nazionale e per una trasmissione della tv”
“E cosa vuole da me?”
“No, no, no la cerca ti en particolar, la sta facendo interviste per quella faccenda del Fugati, che l’ha dit en giro che chi se regala le case, che non ghe pu zent che ghe vive nele nose val. Quel por laor nol sta mai zit”
“E cosa centro io con questa tizia?”
“L’è perchè ti te sei quel giust. Te sei un de quei de zità che te sei vegnù a viver chi en val. La vol entervistarte. La vol capir el perchè. La vol scriver de ti, che te l’hai fat prima degli altri”
“Ma io non voglio essere intervistato. Non ho nulla da dire. Vedrò di starmene ben nascosto e di non farmi trovare in paese. Ora scappo, che Argo mi aspetta. Buona giornata a tutti. Fate i bravi se riuscite” – pagai il caffè e presi l’uscita.
Mentre mi salutavano qualcosa in loro non mi convinceva. Erano troppo ridanciani ed avevo percepito qualcosa di non detto. Ben presto l’avrei scoperto.
Salgo in auto e prendo la via di casa. Un stretta strada che poi diventa sterrata fino ad un parcheggio. Dal parcheggio in poi una stanga sempre aperta limita il passaggio solo ai proprietari di case e fondi più in alto. In questa stagione il parcheggio è sempre vuoto e le prime auto arrivano solo nei fine settimana soleggiati. Noto però un vecchio furgone mercedes, lungo, tipo uno scuolabus antico, di un colore senape chiaro. E’ parcheggiato proprio in mezzo al piazzale sterrato e noto sul davanti attaccato un cartello. Sono curioso e mi avvicino.
Dal furgone esce uno strano personaggio, ben vestito e ben curato. Avrà all’incirca una quarantina d’anni, capelli riccioli castani, barba lunga, un paio di jeans ed una felpa nera. Il suo aspetto pulito stride e contrasta con il mezzo da cui è uscito, che sembra una versione dismessa del camper di Alexander Supertramp di Into the wild (libro di Jon Krakauer Nelle terre esteme ambientato in Alaska, tratto da una storia vera, da cui è tratto il film Into the wild di Sean Penn).
“Hola! Ciao! Buongiorno” – mi accoglie con un sorriso amichevole ma timoroso, penso io, di dover giustificare quel parcheggio.
“Ciao, buongiorno. Scusa, sono sceso e mi sono avvicinato solo per vedere il mezzo e per leggere il cartello. Stai tranquillo, qui puoi starci tutto il tempo che vuoi in questa stagione, difficile che si riempia questo parcheggio prima dell’estate.”
“Oh, grazie. Avevo chiesto in paese e mi hanno indicato questo posto dove potermi fermare qualche notte. Mi hanno detto che non dovrebbero esserci problemi. A proposito, piacere, sono Ramon, vengo dalla Spagna, da Saragozza. Tu sei di qui?”
“Piacere mio, mi chiamo Adam.” – rispondo allungando la mano. Me la stringe con una presa salda e lunga. “Abito qui, sopra il bosco.”
“Splendido posto questo. Sono un ricercatore universitario, della Facoltà di Scienze sociali e umane dell’Università di Saragozza. Sto girando per le alpi dell’Europa, sto scrivendo una ricerca, che spero diventerà un libro. Sto guardando come è cambiata la vita nei posti di montagna nell’ultimo secolo. Sono stato sui Pirenei, sulle alpi francesi ed ora sto attraversando le alpi italiane, dalla Valle d’Aosta alla Slovenia.”
“Che bello. Interessante davvero. E ti stai spostando con questo?”
“Si, lui è un vecchio scuolabus che avevamo comprato durante l’università con gli amici. Abbiamo girato il marocco con lui. Quante avventure. Poi, finiti gli studi, non lo voleva più nessuno ed allora me lo sono preso io. Ora mi sta portando in giro, lento e acciaccato, per la mia ricerca. Ma ogni tre quattro giorni mi fermo in albergo oppure in qualche stanza in affitto. Mi serve solo come mezzo di trasporto e come letto di fortuna. E’ la mia tenda ed il mio ufficio”
“Bene, felice di averti conosciuto. Io abito a circa mezz’ora di sentiero a piedi da qui. Si imbocca lì, il numero 748. Starò a casa per qualche giorno e se hai bisogno di qualcosa, oppure se vuoi venire a trovarmi, passa pure. Ti aspetto.”
“Grazie. Volentieri. Sicuramente volevo farmi un giro nei dintorni, magari passo a trovarti”.
Mentre risalivo la forestale in direzione di casa mi venne da sorridere. Ho deciso di venire a vivere qui, solitario ed isolato, per starmene in santa pace. Poi mi ritrovo sempre a cercare la compagnia delle altre persone. In montagna l’isolamento rende più scontrosi, diffidenti, ma anche più bisognosi di compagnia. Uno strano controsenso. Ma, d’altronde, trovatemi qualcosa nella vita che abbia davvero un senso.